Sempre più spesso negli ultimi anni accade che le imprese che omettono il versamento di debiti tributari invochino la crisi per giustificare il mancato pagamento.
Sulla questione dell’omesso versamento dell’Iva è intervenuta di recente anche la sentenza 1725/2015 della Cassazione Penale che, del tutto in linea con altre decisioni similari, mantiene un atteggiamento rigoroso nei confronti del contribuente.
Il mancato pagamento dell’Iva, come noto, costituisce un reato, disciplinato dall’art. 10 ter del D. Lgs. n. 74 del 2000, articolo inserito nel 2006 nell’ambito della legge dedicata ai reati in materia di imposte. Aggiungendo questa nuova fattispecie criminosa, il legislatore si riporta alla sanzione già prevista per il delitto di omesso versamento delle ritenute d’acconto certificate (reclusione da 6 mesi a 2 anni) per estenderla a chiunque non versi l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a 50.000 euro per ciascun periodo d’imposta; si precisa che in seguito ad un intervento della Corte Costituzionale (sentenza n. 80 del 2014), per i fatti commessi fino al settembre 2011 la soglia deve intendersi più alta, 103.291,38 euro.
Il reato si consuma alla scadenza del termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, ossia il 27 dicembre: dunque non è sufficiente un qualsiasi ritardo, ma occorre che l’omissione del versamento si protragga fino al 27 dicembre dell’anno successivo.
Il reato è a carattere istantaneo, e “consiste nel mancato versamento all’erario delle somme dovute sulla base della dichiarazione annuale che, tranne i casi di applicabilità del regime Iva per cassa, è ordinariamente svincolato dalla effettiva riscossione delle somme corrispettivo relative alle prestazioni effettuate”.
Quanto all’elemento soggettivo, il reato in esame è punibile a titolo di dolo generico. Molte delle condotte penalmente sanzionate dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, precisa la Corte Suprema, richiedono che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte, ma questa specifica direzione della volontà illecita non emerge in alcun modo nell’art. 10 ter: per la commissione del reato, basta, dunque, la coscienza e volontà di non versare all’Erario l’imposta, coscienza e volontà che deve investire anche la soglia di euro 50.000 (103.291,38 per fatti antecedenti il settembre 2011).
La prova del dolo, così affermavano recisamente anche le SS.UU. n. 37424/2013, è insita nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo d’imposta, e che deve, dunque, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia di punibilità.
Venendo ora alla questione della crisi di liquidità che si assume essere incolpevole e che si vorrebbe utilizzare per giustificare il mancato pagamento di tributi all’Erario, la Corte, menzionando le ipotesi più frequentemente portate a giustificazione dai contribuenti:
- a) l’aver ritenuto di privilegiare il pagamento delle retribuzioni ai dipendenti, onde evitare dei licenziamenti;
- b) l’aver dovuto pagare i debiti ai fornitori, pena il fallimento della società;
- c) la mancata riscossione di crediti vantati e documentati, verso la clientela e spesso nei confronti dello Stato;
dichiara espressamente che nessuna di queste situazioni, seppure provata, può integrare ex sé la forza maggiore o lo stato di necessità.
Vi è però un (lieve) apertura, in linea con altre sentenze della Cassazione meno severe: “non è escluso che in astratto siano possibili casi … nei quali possa invocarsi l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere l’obbligazione tributaria”, è tuttavia necessario che l’imprenditore dimostri che la crisi di economica non sia a lui imputabile e che tale crisi non sarebbe stata altrimenti fronteggiabile tramite altre misure idonee, come il ricorso al credito bancario. In pratica il ricorrente che voglia giovarsi di tale esimente, riconducibile alla forza maggiore, dovrà dar prova che non gli sia stato altrimenti possibile reperire le risorse necessarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale.